Il Primo ministro Draghi, ogni volta che gli capita di esprimere un concetto, rivela il grigio funzionario che è in lui. Ne è ultima conferma la frase “Le cose vanno fatte perché si devono fare”, pronunciata ricordando Beniamino Andreatta (curatore insieme a Ciampi del malaugurato divorzio fra Tesoro e Bankitalia).
La frase, un po’ tautologica, sorvola sul fatto che le “cose che si devono fare” generalmente non sono tali per vincolo di natura, ma dipendono da scelte il più delle volte squisitamente politiche, e in quanto tali conseguenza del compromesso fra interessi divergenti e rapporti di forza più o meno asimmetrici.
Un processo che potrebbe perfino definirsi democratico, se anche il popolo ne venisse coinvolto qualche volta.
È probabile invece che il Nostro (la cui deformazione professionale di ligio esecutore è maturata nei numerosi anni trascorsi al servizio di poteri al riparo dal processo elettorale), per “cose che si devono fare” intenda la lista delle disposizioni che ha ricevuto con il mandato.
Il quale mandato, è superfluo ricordarlo, non gli deriva dall’esito di una normale consultazione elettorale dove ciascuno dei concorrenti illustra il proprio programma.
Anzi, a pensarci bene nessuno è in grado di dire qual è il programma di questo esecutivo. Esiste certo l’obiettivo generale di superare l’attuale emergenza economico-sanitaria e ambientale (vaste programme, direbbe qualcuno), ma le misure particolari di cui intende avvalersi per realizzarlo (“le cose che si devono fare”, appunto) non sono mai state oggetto di discussione nel Paese, né è dato sapere quali sono i criteri secondo i quali verranno ripartiti i costi fra le diverse componenti sociali.
Anche se qualche indizio, a dire il vero, in questi mesi è già trapelato.