Il fallimento al Consiglio europeo dello scorso 23 aprile in sé ci starebbe pure: dato lo stato di manifesta subordinazione – culturale prima ancora che politica – in cui versano i nostri decisori, non potevamo oggettivamente aspettarci di meglio.
Quello che disturba e preoccupa è il volerlo fare passare per un grandioso successo.
Raccontarsi la disfatta come se fosse una vittoria significa che non ci si prepara a reagire di conseguenza, e dunque che ci si dispone a essere sconfitti anche per le occasioni a venire.
È il modo peggiore di perdere. Ed è disperante la ragionevole certezza che le cose non sarebbero cambiate se al posto dell’attuale compagine al governo ci fosse stata quella attualmente all’opposizione.
È lì – nella narrazione che rifiuta la realtà – che ci sentiamo presi per le terga; ed è lì che si capisce come con questo ceto politico non potremo mai uscirne.
Perché è lì che si capisce che la condizione di sottomissione psicologica non è circostanziale, ma frutto di una consolidata tradizione di ossequio al podestà straniero, grazie alla quale tanti piccoli quisling – alcuni inconsapevoli, altri in piena consapevolezza – hanno trovato l’ideale brodo di coltura dove prosperare.