Ebola come metafora: la bancarotta morale del neoliberismo.

Leigh Phillips è uno scrittore scientifico e giornalista. Scrive per Nature, The Guardian, Scientific America, EU-Observer e Daily Telegraph. Sulla sua pagina Twitter si presenta come “Ex scribacchino di Bruxelles, sinistroide prometeico, cosmopolita senza radici. In un articolo su Jacobin scrive che Ebola è la plastica rappresentazione  del fallimento del neoliberismo e del libero mercato come sistema socio-economico.

La dottrina neoliberista afferma che il miglior modo, anzi l’unico, di conseguire il benessere collettivo è quello di esaltare le capacità dell’individuo lasciandolo libero di perseguire il proprio interesse all’interno di un sistema caratterizzato dal prioritario diritto di proprietà privata, da liberi mercati e da libera concorrenza. In questo sistema il ruolo dello Stato deve limitarsi a garantire tali condizioni, altri interventi avrebbero solo effetti distorsivi e pregiudicherebbero l’efficienza degli automatismi che permettono al mercato di autoregolarsi e produrre ricchezza. La ricchezza a sua volta, proprietà dei meritevoli che partecipano al processo, per una sorta di meccanismo a cascata (trickle-down) ricade vantaggiosamente sulla comunità tutta.

Quanto tutto ciò sia pretestuoso e mascheri  una concezione spietatamente darwiniana della società dovrebbe essere evidente dai disastri che si sono perpetrati negli ultimi quarant’anni, prima sulla pelle dei paesi del terzo mondo, poi su quella dei paesi emergenti e ora sulla pelle dei paesi “avanzati”. Le cronache di questi ultimi anni ne danno ampia testimonianza, ma il condizionamento operato attraverso l’occupazione sistematica dei luoghi di potere – economico, politico e culturale – fa sì che quello neoliberista continui a proporsi come unico modello di riferimento per l’interpretazione della realtà, non perché migliore ma perché senza alternative, cioè “naturale”.

 Big Pharma 1

L’inadeguatezza del neoliberismo nell’affrontare il problema Ebola è quindi solo un caso specifico  del più generale fallimento della dottrina, ma la particolare valenza emotiva che l’epidemia riveste, specie oggi che sembra minacciarci direttamente, gli conferisce una particolare esemplarità.

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La pratica economica neoliberista implica che il problema Ebola resterà irrisolto fino a quando non diventerà remunerativo trovare la soluzione.

Nel frattempo contribuisce  ad esacerbarlo: da una parte dissuade le aziende farmaceutiche a investire le ingenti somme necessarie per la ricerca di un vaccino il cui ritorno economico è dubbio; dall’altra, le politiche di tagli alla spesa e limitazione del ruolo dello stato pregiudicano là dove esistono l’efficienza delle strutture sanitarie, o ne impediscono lo sviluppo là dove non ci sono.
L’intempestiva riduzione dei finanziamenti all’OMS da parte degli stati finanziatori è eloquente: il budget per le crisi epidemiche è passato dai 469 milioni di dollari del periodo 2012/2013 ai 228 milioni del periodo 2013/2014. [Tanto più eloquente se pensiamo che di recente il premio Nobel Obama ha richiesto ai paesi NATO di impegnare nelle spese militari il 2% del PIL, ciò che per la sola Unione Europea rappresenterebbe un budget di circa 3.200 milioni di dollari].

Nel caso delle crisi sanitarie del terzo mondo esiste anche, è vero, una componente razzista.  Il sito Onion fa del macabro sarcasmo e quantifica in numero equivalente di bianchi morti il tempo che ci vorrà ancora per scoprire un vaccino. Ce ne vorranno, stima, 50 o 60.

Tuttavia la componente razzista passerebbe in ultimo piano se solo si potesse contare su un buon tasso di redditività. Ebola è un problema non per mancanza di risorse ma perché privo di appetibilità economica. Dal 1976, anno in cui il virus è stato identificato per la prima volta, il numero delle vittime è solo di qualche migliaio – un “mercato” troppo esiguo rispetto alla dimensione degli investimenti che lo sviluppo di un vaccino su scala industriale richiederebbe.
Si tratta degli stessi vincoli economici che spiegano la riluttanza delle grandi case farmaceutiche ad affrontare altre patologie che come l’Ebola non offrono degne prospettive di mercato.

Negli USA è stato il settore pubblico, direttamente o tramite finanziamenti a piccole imprese biotecnologiche, a far progredire la ricerca. Anthony Faucy, capo della NIAID, da tempo si affanna a spiegare alla stampa e a chiunque voglia ascoltarlo che il rimedio contro l’ebola sarebbe a portata di mano, non fosse per la taccagneria dell’industria farmaceutica. “Abbiamo  un nostro vaccino sperimentale, ma non riusciremo mai a convincere le case farmaceutiche a svilupparlo e farne delle scorte. Un vaccino per un virus che provoca limitate epidemie ogni trenta o quarant’anni – beh, non è molto incentivante”.
Tanto più se sono epidemie che riguardano le più povere comunità del pianeta. John Ashton, presidente della FPH, in un articolo sull’Independent definisce scandalosa la riluttanza delle industrie farmaceutiche a impegnarsi nella ricerca per produrre cure e vaccini solo perché, secondo le loro stesse parole, il numero delle persone coinvolte è talmente piccolo da non giustificare l’investimento.
“Questa è la bancarotta morale del capitalismo, che agisce al di fuori di ogni cornice etica e sociale”.
E’ la stessa logica che ha indotto le grandi case farmaceutiche a trascurare lo sviluppo di una nuova classe di antibiotici, con la creazione di un vuoto di ricerca che nel giro di vent’anni porterà alla mancanza di antibiotici in grado di combattere efficacemente le infezioni. Secondo un recente studio dell’OMS, i ceppi batterici che hanno sviluppato resistenze sono ormai a un livello allarmante. Big Pharma lo ammette candidamente: da un punto di vista imprenditoriale non ha alcun senso investire uno o due miliardi di dollari per medicinali che la gente assume sporadicamente; è molto più logico investire nello sviluppo di terapie per malattie croniche, come il diabete, il cancro o l’AIDS, per le quali il paziente è obbligato ad assumere costosi medicinali ogni giorno,  spesso per tutta la vita. [E in quest’ottica è molto più conveniente sviluppare un farmaco che controlli la malattia – quindi da assumere sistematicamente, piuttosto che trovarne uno che la guarisca una volta per tutte – quindi da assumere una volta sola].

Il risultato è che negli stati Uniti le infezioni da batteri resistenti agli antibiotici colpiscono ogni anno 2 milioni di persone e provocano 23.000 decessi. Altri vaccini trascurati per “ragion d’impresa” sono quelli per l’infanzia, per i quali ormai da un decennio gli USA lamentano un problema di scorte insufficienti.Nel caso Ebola, almeno, il Dipartimento della Difesa USA, nel quadro della prevenzione al bio-terrorismo, può finanziare le piccole imprese biotech e impegnarsi all’acquisto di uno stock di vaccini. In presenza di rischi per la sicurezza nazionale,il Governo non esita a subentrare al mercato se questi si dimostra inadeguato o assente. Senza questi sussidi non si sarebbero potute sviluppare le tre o quattro opzioni ora disponibili. Una di queste, lo ZMAPP, sembra molto promettente. È già stato usato con successo in alcuni casi di emergenza, e anche se le condizioni di somministrazione non permettono di attribuire con certezza la guarigione alla sua efficacia ci sono ragionevoli motivi di ottimismo.

La superiorità dello Stato nel governare e guidare la ricerca, nonostante i postulati neoliberisti che sostengono il contrario, è evidente. [Ne parla anche l’economista Marianna Mazzuccato, nel saggio “Lo Stato Innovatore”, dove dimostra che contrariamente alla credenza comune le innovazioni più significative degli ultimi decenni (internet, nanotecnologie, telecomunicazioni…) sono il risultato dell’azione diretta o indiretta del settore pubblico, proprio perché il settore privato non è disposto ad assumersi il rischio di investimenti se non presentano garanzie di un congruo ritorno].

Ma se l’industria farmaceutica, in base alla logica privata del profitto, non è in grado di assicurare alla popolazione tutti i farmaci di cui ha bisogno bensì solo quelli ad alta redditività, allora bisogna prendere atto che quella del libero mercato è una logica fallimentare. Questa considerazione è vera per ogni campo in cui è in gioco il benessere generale, ma la delicatezza de settore sanitario la rende vera ancora di più. La domanda che ne consegue è: perché lo stato dovrebbe farsi carico delle sole aree  svantaggiose  e lasciare al privato quelle altamente redditizie? In altre parole, perché non nazionalizzare l’industria farmaceutica? In questo modo i farmaci remunerativi potrebbero finanziare quelli che lo sono  scarsamente o punto ma che sono altrettanto cruciali, e le scelte di investimento sarebbero finalmente motivate, più che dall’interesse a breve termine di azionisti e manager, da quello a lungo termine del benessere generale.

[In un’epoca di pensiero unico neoliberista la parola “nazionalizzazione” suona come una bestemmia. Viviamo da anni all’interno di una cornice culturale dove tutto ciò che riguarda lo Stato è inefficiente, corrotto, oppressivo, e tutto ciò che appartiene al Privato è emancipato, onesto, efficiente. È una rappresentazione grottesca e mistificante, ma l’abbiamo introiettata così perfettamente che nessuna evidenza riesce a indurci a un giudizio più equilibrato. Sarebbe ora, non foss’altro  che per igiene mentale, di ammettere la possibilità che esistono paradigmi un po’ meno rozzi].

Il rifiuto di Big Pharma di impegnarsi nella ricerca contro malattie “di nicchia” non remunerative  è profondamente immorale.
[Qualche neoliberista obietterà che le aziende, in quanto entità giuridiche, hanno solo vincoli legali ma nessun vincolo etico: sono amorali.  Questo è vero, ma resta vero il fatto che le scelte aziendali sono operate da persone fisiche, che si suppone dispongano di coscienza e quindi abbiano a riferimento un qualche sistema di valori che può, quello sì, essere sottoposto a giudizio morale.]

Il fallimento neoliberista, oltre che nell’approccio aziendalistico, si manifesta anche nel tipo di governance che impone alle nazioni. Non è solo la colpevole omissione di ricerca del vaccino. Alla diffusione delle epidemie contribuiscono anche le situazioni  igieniche, il deterioramento o la mancanza di infrastrutture e in generale le precarie condizioni economiche che affliggono i paesi poveri. Uno stato di cose che la politica neoliberista non migliora, stante i freni ideologici che essa pone all’intervento dello Stato e l’attività esclusivamente predatoria delle multinazionali. Liberia,  Sierra Leone e Guinea si trovano rispettivamente al 174°, 177° e 178° posto su 187 nell’Indice di sviluppo stilato dall’ONU. Le strutture governative di base sono state indebolite, e ciò ha impedito un più efficace contenimento del virus, ha accentuato le difficoltà logistiche e reso inefficace il coordinamento con gli altri governi.
L’epidemiologo Daniel Bausch testimonia che in Guinea ogni volta che si spostava da Conakry alla regione delle foreste trovava peggiori strade, minori servizi pubblici, prezzi più alti, foreste più ridotte. Il geografo ed ecologista Rob Wallace spiega che in Guinea, come in molti altri paesi del terzo mondo, i governi occidentali e le istituzioni finanziarie che essi controllano hanno “incoraggiato”  misure di riforme strutturali che prevedono, classicamente, privatizzazioni, rimozione delle tariffe protettive e orientamento all’export della produzione agricola, con gravi ripercussioni sull’autosufficienza alimentare. I fattori di produzione agricoli e la terra finiscono in larga misura nelle mani delle multinazionali, mentre contadini e piccoli produttori vengono emarginati.

L’ebola, come buona parte delle affezioni umane, è di origine zoonotica, cioè di virus che passano dagli animali all’uomo. Il più grande fattore di crescita delle patologie zoonotiche deriva dal contatto fra uomini e  fauna selvatica, dovuta all’espansione dell’attività umana nelle aree selvagge. Poiché l’espansione delle multinazionali toglie territorio ai contadini, questi per sopravvivere sono costretti a ripiegare all’interno delle foreste, esponendosi a maggior rischio di infezione. Come osserva Daniel Bausch, “sono i fattori biologici ed ecologici a fare emergere i virus dalla foresta, ma è la cornice sociopolitica a determinare se il fenomeno sarà limitato a un caso o due o se scatenerà un’epidemia”.

 Ebola Grafik FR gauche

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“Negli ultimi mesi, la peggiore epidemia di Ebola della storia ha mostrato la bancarotta morale del modello di sviluppo farmaceutico”, scrive Phillips.
Ma Big Pharma è solo un aspetto particolare di un fallimento generale, e l’affermazione di Phillips può essere parafrasata in termini ben più estensivi: negli ultimi anni la peggiore crisi economica della storia ha mostrato la bancarotta morale del modello di sviluppo neoliberista.
Se l’approccio di mercato consiste nella ricerca del profitto come unica finalità, allora il conflitto fra interesse generale e interesse particolare, in una società globalizzata a esclusivo vantaggio delle multinazionali, assume davvero rilevanza vitale. Le conseguenze del conflitto sono sotto gli occhi di chiunque voglia vedere: le devastazioni ambientali, la sperequazione, la distruzione delle tutele sociali, l’individualismo disperato dell’io speriamo che me la cavo. Quote sempre più grandi di popolazione vengono spinte sotto la soglia di povertà, a ingrossare le fila di un’umanità dolente che da sempre aspetta di essere salvata (“La riduzione della povertà è il nostro scopo primario”, è la grottesca dichiarazione della Banca Mondiale, sodale del FMI [1] ).

Già, la povertà…
Come ho letto da qualche parte, è la la povertà la vera, grande epidemia di questo mondo, e il capitalismo  neoliberista ne è l’agente patogeno. Durante gli anni del secondo dopoguerra ci siamo illusi  di averlo messo sotto controllo, ma a partire dagli anni ’70 ha riacquistato virulenza mano a mano che una Società distratta perdeva la capacità di generare anticorpi.
Oggi la narrazione prevalente è che non ci sono alternative al virus, anzi proprio il virus è la cura.  La verità è che le alternative smettono di esserci quando si smettono di cercare.

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(1) D.Harvey “Breve storia del neoliberismo”, il Saggiatore, pagina 200.

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Per approfondire:

https://www.jacobinmag.com/2014/08/the-political-economy-of-ebola/

http://farmingpathogens.wordpress.com/2014/04/23/neoliberal-ebola/

http://www.who.int/drugresistance/documents/surveillancereport/en/

https://www.jacobinmag.com/2013/06/socialize-big-pharma/

http://www.solidaire.org/index.php?id=1340&tx_ttnews%5Btt_news%5D=39027&cHash=3fac0f3cc7db2488de0a474a738124cc

 

 

Informazioni su Mauro Poggi

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5 risposte a Ebola come metafora: la bancarotta morale del neoliberismo.

  1. Davide Visigalli ha detto:

    Caro Mauro,
    complimenti, è un articolo veramente interessante.

    Due commenti rapidi:

    1- Sulla competizione fratricida come sistema naturale darwiniano : anche qui siamo in presenza di un (ahimè) uso comune della teoria di Darwin in senso sociale ( non tuo ovviamente, ma è abbastanza diffuso). A leggere attentamente l’opera dello studioso non si trova assolutamente l’idolo della competizione, anzi è solo uno degli strumenti di selezione e nemmeno il più importante, soprattutto all’interno della stessa specie). Su AAP avevo scritto qualcosa in merito, se può interessare.

    2- Epidemia di Ebola: condivido in tutto il tuo pensiero. Inoltre vorrei far riflettere su di un possibile altro scenario: il virus è letale nei paesi del terzo mondo che non hanno un SSN adeguato a porvi rimedio. In occidente non potrà mai svilupparsi un’ epidemia ( comunque piccola nei numeri, anche se disumana) perché, anche senza vaccino, la mortalità sarebbe bassissima. Dovrebbero bastare alcune flebo per ripristinare il corretto apporto di liquidi, oltre a limitare la contaminazione nella popolazione tramite quarantene e quant’altro. Quindi l’allarmismo causato dai media occidentali, potrebbe far aumentare le “azioni” del possibile nuovo vaccino, (che hanno già pronto), in modo da farne diventare la produzione conveniente per Big Pharma. Chi dovrà pagare l’esborso economico di milioni di dosi di vaccino (inutile in Occidente)? Ovviamente i tanto vituperati sistemi sanitari nazionali, e quindi tutti noi. Il caso H5N1 e mucca pazza ne sono esempi lampanti.

    Va da sé che per nei paesi del terzo mondo si continuerebbe a morire. Classico è il caso della comune diarrea. (qui milioni di morti)

    • Mauro Poggi ha detto:

      Caro Davide, d’accordo su entrambi i commenti.
      “Darwinismo sociale” è ormai una figura retorica la cui popolarità, credo, ha seguito la stessa curva del neoliberismo. In quanto tale è impropria e abusata, anche se abbastanza efficace. Ammetto la pigrizia la pigrizia mentale di averne subito l’automatismo.
      Sulla seconda osservazione, ti dirò: a volte mi chiedo se sono io il paranoico o se il bombardamento allarmistico cui veniamo sottoposti sistematicamente – si tratti di un virus, di una crisi economica, o di una minaccia terroristica – non sia finalizzato a indurre quello stato di paura e insicurezza permanente che rende la gente così arrendevole e manipolabile. La storia di questo primo scorcio di secolo sembra escludere la prima opzione…

  2. Gabriella Giudici ha detto:

    Giusta precisazione di Davide Visigalli: l’estensione della selezione del più adatto alla sfera sociale è da attribuire a un altro inglese (Spencer) e temo abbia ragione anche sui vaccini: lo shock a quanto pare non è solo strumento di controllo, ma anche di estrazione di valore..

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